Contatto
Di che cosa abbiamo bisogno quando una persona cara muore? Quando un amico ci tradisce? Quando il partner, preso dai suoi problemi, ci tiene a distanza o ci abbandona? Quando ci ammaliamo e ci sentiamo deboli e indifesi?
Di che cosa abbiamo bisogno quando un sogno, coltivato per molti anni, svanisce? Quando ci sentiamo assaliti e invasi da una cascata senza fine di problemi pratici? Di che cosa abbiamo bisogno quando nella nostra vita irrompe la sofferenza inevitabile, alla quale non possiamo sfuggire? Quando ci accorgiamo che la nostra natura è fragile, e che le onde del destino possono in ogni momento stravolgere la nostra esistenza?
Di una cosa abbiamo bisogno: di contatto.
Senza contatto, dal fiume della vita precipitiamo nella pozza della nevrosi, e in quella pozza rischiamo di ristagnare per anni.
Il dolore naturale, connesso agli eventi della vita, ha naturalmente una fine.
Il dolore nevrotico no.
Alimentato dal pensiero ossessivo, crea autostrade neurali nelle quali va dispersa gran parte della nostra energia vitale. Va dispersa a ripensare sempre alle stesse cose, a prepararci a ripetere sempre gli stessi errori, a perdere fiducia in noi stessi e a sentirci impotenti e ansiosi.
La migliore definizione di depressione è: stato di impotenza appreso.
Noi non siamo impotenti, lo diventiamo.
Lo diventiamo assumendo pratiche di vita contrarie alla vita stessa. Prima o poi la vita ci presenta il conto, un conto che può essere molto salato: la disperazione.
Disperazione, ansia, depressione, ossessività, paura, sono tutti sintomi di mancanza di contatto. Non siamo più in contatto con noi stessi, con la nostra vera natura, con le nostre qualità interiori. Non siamo più in contatto con gli altri, con le persone che ci vogliono bene. Non siamo più in contatto con il mondo.
Isolati dal mondo e dagli altri, i nostri tentativi di risolvere i problemi non possono che essere frustrati. Ad ogni problema, se ne aggiunge un altro, in una catena senza fine.
Non possiamo risolvere i problemi perché siamo diventati ottusi: non vediamo ciò che è essenziale vedere. Siamo come un giocatore che corre sempre dietro l’ultimo pallone.
Non riusciamo a vedere l’insieme perché la nostra è diventata una visione a tunnel: focalizzata ogni volta su un obiettivo isolato dal contesto, dal sistema di relazioni che gli danno senso e significato, che gli forniscono il giusto peso e prospettiva.
Gli oggetti, i risultati concreti diventano il centro della nostra attenzione preoccupata.
Una bolletta da pagare, il lavandino intasato, la spesa, una telefonata da fare, le E-mail a cui rispondere: ecco i pensieri che occupano la nostra mente. La occupano e creano una barriera tra noi e gli altri. Ci interessa l’efficienza, a scapito delle relazioni. Ma se non coltiviamo le relazioni, se non le mettiamo in primo piano, non possiamo capire nulla del processo della vita, perché la vita non procede meccanicamente. La vita è essenzialmente relazione e comunicazione.
La vita è contatto, coinvolgimento, partecipazione. La vita è caotica, e procede per balzi: non è prevedibile e controllabile. Nel momento in cui ci isoliamo e ci escludiamo dal suo flusso, perdiamo intelligenza e creatività.
Il pensiero ossessivo non è che un sintomo, una compensazione perversa della mancanza di contatto. Le cose che sono da fare, vanno fatte. Ma mai a scapito della perdita di contatto.
Quando perdiamo contatto, il nostro cuore si chiude, l’intelligenza emotiva e relazionale si inaridisce. Non possiamo essere contenti, perché questo genera sofferenza. Allora facciamo le cose, ma le facciamo per dovere. E gli altri intorno pagheranno per questo, perché in fondo siamo arrabbiati, e la rabbia si esprime attraverso equivalenti aggressivi. Così gli altri imparano a tenersi a distanza, favorendo il nostro isolamento affettivo, e collaborando sempre meno alle nostre richieste di aiuto.
Contatto e controllo si escludono reciprocamente.
Se c’è contatto, non c’è bisogno di controllo, perché ci sentiamo parte di qualcosa di più grande che si auto-organizza naturalmente.
In un gruppo dove c’è molto contatto, le persone fanno naturalmente ciò che è utile fare, in base alle loro capacità. Lo fanno naturalmente perché provano piacere nel donare e nel collaborare gli uni con gli altri.
Empatia, comprensione, riconoscimento reciproco, aprono la via alla gratitudine e alla generosità.
Ognuno è tanto più felice quanto più può donare e contribuire al bene comune.
Dove non c’è contatto, dove regnano separatività e distanza, le persone diventano egoiste, centrate unicamente su di sé e sul proprio tornaconto. Ogni persona diventa un sistema di bisogni e desideri in conflitto con altri sistemi di bisogni e desideri.
Allora le regole e il controllo diventano necessari per far funzionare l’insieme.
Ma creata una regola, se ne rende necessaria subito un’altra, ancora più specifica e dettagliata. Burocrazia e procedure prolificano, a scapito della qualità delle relazioni.
Da esseri umani, vibranti di passioni, sogni ed emozioni, ci trasformiamo in robot, in macchine, in funzionari di apparati sempre più complicati che dominano la nostra vita.
Per dirigere simili apparati occorrono persone distaccate, fredde, calcolatrici. Gli psicopatici, gli apatici nella psiche, cioè nei sentimenti, ricoprono assai bene questi ruoli.
La mancanza di contatto è diventata la malattia della modernità. Già Marx ed Engels avevano affermato che l’attenzione agli oggetti avviene a scapito dell’attenzione alle relazioni. Maggiore ricchezza di oggetti, maggiore povertà relazionale.
Le nostre case e le nostre vite prolificano di oggetti, e gradualmente si spopolano di relazioni calde e coinvolgenti. Abbiamo sempre più bisogno di confort, di cucine efficienti come astronavi, di bagni tecnologici, dotati di idromassaggio, di schermi televisivi grandi come pareti, di ogni sorta di macchinari che eliminino ogni fatica. Case perfette, ove ogni cosa è a suo posto, dove la forma dei mobili e l’abbinamento di colori rispetta la moda del momento, altrimenti ci sentiamo inadeguati, quasi immorali. E per mettere a punto tutto questo, passiamo ore a progettare, ore nei centri commerciali, ore e ore a discutere di queste cose, come se fossero il centro dell’esistenza. Guai se una tenda è strappata, un mobile scollato, un muro macchiato. Tutto deve essere tenuto perfetto.
Un papiro egizio, di duemila anni avanti Cristo, riporta le domande che un aspirante suicida rivolge alla propria anima:
A chi parlerò oggi?
I fratelli sono malvagi. Gli amici di oggi non sanno amare. I cuori sono avidi. A chi parlerò oggi? A chi ha il volto sereno? No, di solito è malvagio. Di solito è soddisfatto dal male. Io sono carico di dolore perché mi manca un confidente. A chi parlerò oggi?
Da tempo immemorabile gli uomini sanno che la fortuna e la sfortuna sono cieche: l’uomo buono non è premiato dalla sorte; e l’uomo cattivo non viene punito. Da tempo immemorabile sanno che i giochi insensati del destino non si possono evitare. Nello stesso tempo si è imparato che le sofferenze si possono lenire se ci si tiene uniti, se non ci si isola e si può confidare su qualcuno. Ma l’urlo disperato del suicida egizio viaggia e risuona attraverso ogni epoca, perché quasi sempre la ricerca del potere sugli altri si impone a scapito della ricerca di contatto.
Dall’antico Egitto a Freud
Freud riteneva che due fossero le pulsioni fondamentali: sesso e aggressività. Secondo Freud è l’inconscio sociale, o Super-io, che preme affinché le due pulsioni primarie non ci portino a lottare tra noi, distruggendo ogni possibilità di convivenza. Insomma, è il Super-io, e non l’inconscio pulsionale, a fornirci una base per il vivere civile, pagando per questo un prezzo: la rinuncia ad una quota di felicità, che ci deriverebbe dall’assecondare direttamente le pulsioni primarie.
Oggi sappiamo che la visione freudiana non è corretta. Sappiamo che anche la socialità è una pulsione primaria, la cui soddisfazione è premiata dal piacere e dalla felicità.
E’ questa pulsione a farci vivere in famiglie e comunità, a cercare il contatto e l’affetto. Del contatto con gli altri abbiamo bisogno per formarci un’identità, perché riconosciamo come nostro solo ciò che è stato visto e riconosciuto da altri. Sono gli altri significativi a creare la nostra base sicura, la fiducia nelle nostre possibilità, la capacità di autosostenerci. In sintesi, la propensione ad essere amici di noi stessi.
E allora, da dove viene l’urlo disperato del suicida? Perché non trova nessuno con cui parlare e per questo è pronto a togliersi la vita, in un gesto disperato, che è anche un gesto di accusa e condanna contro i suoi simili?
Oggi sappiamo che il tasso di suicidi è un chiaro sintomo, che indica il livello di socialità di un paese. Più cresce l’individualismo, più aumentano i suicidi, perché l’uomo non è fatto per vivere in isolamento. Oggi i suicidi sono in aumento, perché in crescita sono l’emarginazione e l’isolamento di un numero crescente di persone. (*)
La nostra è una società dove il bisogno di contatto è gravemente frustrato. Dopo la morte di Dio, abbiamo assistito alla morte del prossimo, il prossimo che non c’è più, perché ci siamo abituati a tenere le distanze e ad essere diffidenti. Ma senza prossimo si atrofizza anche la nostra capacità di amare e di essere felici.
Stare vicini, tenersi per mano, abbracciarsi, guardarsi negli occhi, ridere insieme, sono le più comuni forme di contatto fisico ed emotivo. L’ascolto, l’empatia, la compassione, sono le più importanti forme di contatto psicologico. La conversazione amichevole su temi significativi è la più comune forma di contatto mentale. La condivisione, la cooperazione, la collaborazione, sono le più comuni forme di contatto attraverso l’azione. Il dono reciproco, la gratitudine, la generosità e le altre qualità dell’essere sono le forme più naturali di contatto tra anime.
Se nel contesto sociale queste forme si atrofizzano, sostituite dalla distanza e dall’indifferenza, il bisogno di contatto, come pulsione primaria, continua a premere e cerca compensazioni in modi perversi: nella sessualità, nell’alimentazione, nella ricerca di potere, nei vari tipi di droghe. L’etica che regola i rapporti sociali lascia il posto alla crescente disonestà.
Molti rapporti di coppia vanno in crisi anche perché sul partner vengono investite eccessive attese. Le carenze di contatto nel mondo esterno e nei rapporti di lavoro (non escluse le professioni di aiuto) cercano compensazione nell’unico luogo dove l’intimità e la vicinanza sembrano ancora possibili: la famiglia e la coppia. Quando il partner o i figli diventano monopolisti come fornitori di contatto, diventiamo dipendenti da loro. E la dipendenza non è una forma di amore, perché cresce sul terreno del risentimento.
L’amicizia
L’amicizia, con gli altri e con se stessi, in quanto relazione in cui la libertà non è soffocata da impegni reciproci, – che facilmente si trasformano in doveri e codipendenze –, è la forma di amore che più di altre si presta a ritrovare la strada perduta, quella più naturale per la nostra specie, del contatto reciproco.
L’amicizia, per se stessi e per gli altri, è alimento primario al nostro bisogno di socializzazione. Coltivare l’amicizia, dedicandole tempo e spazio, anche nei luoghi di lavoro, è il modo più facile per lasciar cadere lamentele, pretese, accuse, risentimenti e altri inquinanti della mente, che ci separano dal mondo. E per favorire l’emergere delle qualità dell’essere, come la gratitudine e la generosità, che rilassano il corpo fisico, ammorbidiscono il ventre, aprono il centro del cuore, spengono i circuiti ossessivi, e ci riportano nel fiume della vita, in contatto con ciò che c’è, così come è.
Tipologie umane
Nella società dell’efficienza sono i tipi umani volontà, i tipi attivo-pratico, i tipi scientifico e organizzatore, ad essere premiati nei diversi contesti lavorativi. Nelle imprese, nelle organizzazioni e nelle istituzioni, compresi ospedali e case di cura, l’attenzione primaria è ai risultati, agli obiettivi, alle procedure, non alle relazioni umane. Alcune tipologie umane, come quelle sopra indicate, si adattano a tali contesti senza pagare un prezzo troppo elevato. Altre tipologie, come i tipi amore, o i feeler, in tali contesti sono destinati a soffrire.
In realtà, le tipologie umane sono come i colori o le note musicali: maggiore varietà, maggiore ricchezza. Dallo studio delle tipologie impariamo che una personalità, un gruppo, un’organizzazione funziona tanto meglio quanto più c’è equilibrio tra le diverse tipologie umane. Sarebbe ora che alle tipologie amore e feeler si desse lo spazio che loro compete, in modo che possano fornire un contributo all’armonia dell’insieme.
Potete immaginare come cambierebbe il mondo se in ogni luogo di lavoro, prima di iniziare ad occuparsi di compiti pratici, si dedicassero quindici minuti ad una pratica meditativa, che prevedesse il contatto e l’armonizzazione tra le persone?
Che cosa fanno gli orchestrali, prima di iniziare a suonare insieme? Accordano i loro strumenti. Perché non facciamo la stessa cosa in famiglia, a scuola, negli ospedali, nelle fabbriche, e, soprattutto nei luoghi della politica e della finanza?
Mauro Scardovelli
2008