Illusione e Sofferenza
L’origine della sofferenza
Origine della sofferenza: l’illusione della separazione
Secondo la psicologia asiatica, i concetti di separazione, che, attraverso il linguaggio, dominano la nostra cultura e la nostra vita, sono la causa prima della sofferenza. Ciò che consideriamo come reale, la divisione tra ‘io’ e ‘altro’, è, di fatto, un’allucinazione.
Essa comporta inesorabilmente la perdita del nostro potenziale umano più alto: la capacità di amare in modo incondizionato.
“Il momento critico del cammino, che schiude il cuore che ama, è la comprensione che non siamo mai esistiti come esseri isolati e separati. Quando la saggezza riconosce la nostra unità e vede l’interconnessione di tutti gli esseri, ci riempie di una felicità tale da trasformare tutta la vita”.(Salzberg, 1995)
L’esperienza d’interconnessione profonda – negli stati mistici, negli stati profondi – è considerato nient’altro che una forma di regressione ad un precedente stato di indifferenziazione o fusione. In tal modo collude con l’allucinazione collettiva, di cui anch’essa è figlia.
Confondendo il prepersonale con il transpersonale (Wilber, 1995), non può fornire un grande aiuto nelle questioni di fondo, nei problemi esistenziali più gravi: vecchiaia, malattia, morte.
Recentemente un allievo mi ha riferito di una conversazione avuta con uno psichiatra di formazione psicoanalitica ortodossa. L’allievo aveva espresso la convinzione – da noi condivisa -, che lo scopo finale di un percorso evolutivo o di una terapia riuscita è ricontattare uno stato di gioia, un senso di felicità e di pace, che si accompagna naturalmente al contatto con il sé profondo e ad una vita pienamente vissuta. Lo psichiatra reagì a quest’affermazione con malcelata aggressività ed indignazione: “Voi siete una setta, un’associazione pseudoreligiosa, non certo una scuola di formazione o psicoterapia. Voi alimentate illusioni e false speranze. Ciò che si può realisticamente ottenere è solo una sostenibile infelicità!”.
Accettare questo come unico obiettivo possibile comporta una profonda svalutazione dell’essere umano e del suo potenziale spirituale, del quale l’amore, la compassione e l’empatia nella gioia sono componenti essenziali. Non casualmente uno dei sette fattori d’illuminazione indicati nello Yoga è il “gioioso entusiasmo”.
La nostra cultura, non contrastata dalla scienza psicologica tradizionale, ci ha abituato a considerare normale il cattivo umore, l’irritazione cronica per i fatti della vita, l’incapacità di relazionarci in modo amorevole e gentile. Troviamo sempre delle ottime ragioni per non essere soddisfatti.
Durante tutta la vita ricerchiamo la felicità. Nel profondo sappiamo che la felicità può essere raggiunta solo se amiamo noi stessi e gli altri e ci sentiamo uniti (Krishnamurti, 1993). Ma spesso ci isoliamo, temiamo l’intimità e soffriamo di un disorientato senso di separazione. Imploriamo l’amore e tuttavia siamo soli, anche in mezzo alle persone.
La nostra illusione di essere divisi l’uno dall’altro e di essere differenti da ciò che ci circonda è la causa di questo grande dolore.
Riconoscere la natura spirituale dell’uomo significa uscire dal tunnel della separazione, che conduce all’inferno della frammentazione, della solitudine e dell’isolamento interiore.
La guarigione spirituale passa attraverso il recupero del senso di connessione con gli altri esseri umani e con tutti gli esseri. Tale consapevolezza genera un naturale senso di gioia, qualunque cosa accada.
Il conflitto fondamentale
Esiste un conflitto di fondo comune a tutti gli esseri umani:
il conflitto tra la spinta evolutiva e l’opposizione ad essa.
L’ultimo Freud l’aveva intuito ed espresso in termini di contrapposizione tra Eros e Zanathos. La visione materialista gli aveva però impedito di esplorare gli aspetti spirituali del conflitto, costringendolo dentro un’interpretazione riduttiva. Per tale interpretazione Zanathos è espressione del principio d’inerzia e si traduce nell’aspirazione degli organismi viventi a ritornare allo stato di materia inorganica.
Secondo la corenergetica, invece, in accordo con molte tradizioni spirituali, la contro-spinta fondamentale è dovuta a paura (J. Pierrakos, 1997).
Perché mai l’uomo dovrebbe temere proprio ciò che gli consentirebbe di realizzarsi pienamente e di vivere più felice?
Le possibili risposte a questa domanda sono numerose:
- perché evolvere significa abbandonare le certezze del presente per un futuro sconosciuto (Krishnamurti, 1993)
- perché significa perdere il senso di appartenenza, uscire dal gruppo, affrontare la solitudine (Hellinger, 2002)
- perché significa abbandonare i piaceri più facili, rinviare la gratificazione, impegnarsi e faticare (Peck, 1978)
C’è però una risposta che le sovradetermina tutte:
l’uomo ha paura di abbandonarsi alla spinta evolutiva perché ha paura di essere annientato, distrutto, perdere la sua identità, morire (E. Pierrakos, 1997).
La spinta evolutiva che permea l’universo è l’amore o forza di attrazione. Tale forza si manifesta spingendo gli individui gli uni verso gli altri, e facendo in modo che la separazione risulti penosa e priva di significato. La spinta verso gli altri si accompagna a piacere supremo. L’energia vitale stimola continuamente l’uomo ad uscire dal suo isolamento. Lo spinge verso il contatto e la fusione (Ibidem).
Ma l’uomo civilizzato, non si fida dell’energia che lo ha creato e che lo permea. Tale stato si manifesta come sfiducia nei confronti dei suoi istinti più profondi. Per questo ha imparato a distinguere tra corpo e spirito, a reprimere e a controllare pulsioni ed istinti, a chiudere il centro del cuore.
L’uomo che ha paura non può veramente amare, perché amare significa aprirsi totalmente, rendersi vulnerabili, senza barriere
(Osho, 1978)
E qui inizia il circolo vizioso, la profezia che si auto-adempie. Ciò che viene represso per paura, alimenta l’ombra e il sé inferiore. Tutto ciò che finisce nell’ombra prima o poi imputridisce e assume una valenza davvero negativa, come un cane che viene chiuso dentro una gabbia e diventa furioso. Ciò che fuoriesce dall’ombra fa sempre più paura, perché si è corrotto e pervertito.
L’individuo diventa così preda di due forze contrapposte:
la spinta verso il contatto e il rifiuto di questo, prodotto dalla paura.
Dal momento che il principio del piacere è parte integrante dell’energia vitale, si lega alle forme distorte che il contatto assume. Si finisce così per puntare il dito e condannare le manifestazioni più distorte della corrente vitale e del principio del piacere – ad esempio il sadismo e il masochismo – come se fossero prova del loro carattere negativo, anziché frutto della repressione.
L’unica soluzione è comprendere che gli istinti si esprimono in modo positivo, se non si interferisce con essi, se non vengono negati o separati dalla loro origine, a causa di un artificiale dualismo, che li vede contrapposti od ostili alla crescita spirituale (Reich, 1948). La vera guarigione è recuperare la connessione con la totalità, cioè recuperare i contenuti dell’ombra (Dethlefsen, 1984; Osho, 1978).
“L’uomo può ritrovarsi solo quando comprende questo fatto, e cessa di lottare contro se stesso, contro i propri istinti, contro il proprio corpo e la propria natura e, dunque, contro la natura in generale. E’ questo il grande conflitto in cui l’umanità è intrappolata. Quando tutti i leader spirituali se ne saranno resi conto, l’umanità potrà fare un grande balzo in avanti nel proprio sviluppo”(E. Pierrakos, 1997)
La fuga dal dolore. Dolore reale e dolore nevrotico
La prima delle quattro nobili verità del buddhismo insegna che la vita è difficile, che c’è la sofferenza (Peck, 1978).
Per quanto ci diamo da fare, non possiamo sfuggire al dolore che si accompagna indissolubilmente alla vita. Non possiamo sfuggire alla malattia, alla vecchiaia, alla morte. Eppure è ciò che tentiamo continuamente di fare:
cerchiamo la felicità sfuggendo al dolore.
Ma il dolore negato, rimosso, ci segue come un’ombra. In tal modo, al posto del dolore reale, ricadiamo in un dolore molto più durevole e grande: il dolore nevrotico.
Il dolore reale, se accettato fino in fondo, vissuto pienamente, condiviso, ci fa crescere e maturare come esseri umani (Pierrakos, 1989).
Se superiamo la nostra tendenza narcisistica a rifuggire al dolore, ad arrabbiarci con il destino, a sentirci vittime perseguitate ingiustamente, se solo apriamo gli occhi e vediamo che questa è la condizione umana comune, allora possiamo considerare il dolore una sorta di chiamata, una missione che ci viene affidata.
Attraversando e superando la prova, ne usciremo non solo rafforzati, ma in grado di comprendere e aiutare gli altri. Saremo in grado di sviluppare autentica compassione, senso di unione e fratellanza.
Una giovane donna di nome Kisagotami perse il suo unico figlio di circa un anno, a causa di una malattia. Disperata girava il villaggio di casa in casa, stringendosi al petto il cadavere del bambino e implorando una medicina che lo facesse tornare in vita. I vicini pensavano che fosse impazzita, ne avevano paura e cercavano di evitarla. Un uomo, invece, cercò di aiutarla indirizzandola al Buddha, dicendole che lui aveva la medicina che cercava. Kisagotami andò dal Buddha – come noi andiamo dallo psicoterapeuta – e lo implorò di darle quella medicina. “Ne conosco una che potrebbe fare al caso tuo”, disse il Buddha, “ma ho bisogno di una manciata di semi di senape provenienti da case in cui non siano mai morti né bambini, né genitori, né coniugi, né servi”. Mentre faceva il giro del villaggio, Kisagotami lentamente comprese che non era possibile trovare una casa di quel genere. Depose il cadavere del suo bambino nella foresta e tornò dal Buddha. “Mi hai procurato i semi di senape?” chiese questi. “No rispose lei. La gente del villaggio mi ha detto: i vivi sono pochi, ma i morti sono molti”. “Pensavi di essere la sola ad aver perso un figlio”, disse il Buddha, “ma la legge della morte vuole che nessuna creatura vivente duri in eterno”. Qualche tempo dopo Kisagotami prese i voti e divenne una seguace del Buddha. Una sera si trovava in cima alla collina e lontano vide giù nel villaggio le luci che splendevano nelle case. “La mia condizione è simile a quelle lampade”, rifletté. Si narra che il Buddha le comparisse in una visione, confermando questa sua intuizione. “Tutti gli esseri viventi somigliano alle fiamme di queste lampade”, le disse, “ora splendono, l’attimo dopo sono spente; solo coloro che raggiungono il Nirvana sono al sicuro” (Epstein, 1998, p. 17).
Questa storia è una parabola sulla morte, sull’impermanenza e sulla trasformazione del dolore. Kisagotami guarì nel momento in cui si rese conto che il suo problema non era unico, ma universale. Spostando l’attenzione dal proprio trauma alle luci vacillanti del villaggio aveva compiuto un salto percettivo: aveva visto con chiarezza che la sua tragedia era la più comune delle esperienze. Accettando la sua perdita, e non più negandola o rifiutandola, Kisagotami aveva potuto scoprire una realtà più grande. Il dolore, accettato come parte della realtà, e attraversato volontariamente, ci rende dolci e gentili. Il dolore rifiutato, ci rende duri e crudeli, con noi stessi e con gli altri (Pierrakos, 1989).
Egocentrismo, alienazione e disumanizzazione
Perché rifiutiamo il dolore? Perché ne abbiamo paura.
La paura ci assale nel momento in cui ci identifichiamo nel nostro piccolo ego, ci sentiamo separati dal mondo, divisi dagli altri, e quindi frammentati al nostro interno (Elenjimittam, 1990).
Come una foglia che ha perso consapevolezza di essere parte di un grande albero. In tal modo ci rendiamo impotenti.
L’identificazione nell’ego è espressione di orgoglio: “Io, io, io”.
La persona ego-centrata sviluppa una volontà personale in continua opposizione alla coscienza-volontà del sistema più ampio di cui fa parte. Non può rilassarsi: deve sempre controllare, lottare, contrapporsi alla sorte.
Non si affida e soffre per un dolore non necessario, un dolore sterile, distruttivo. In quel dolore non c’è senso alcuno: di qui la crescente disperazione, il senso di inutilità e fallimento.
Tutto ciò che ottiene è precario, perché si attacca alla superficie delle cose.
A fronte di questa malattia comune, la società in cui viviamo offre i suoi rimedi: la ricerca della felicità attraverso il possesso di beni materiali, il potere sulle persone, l’identificazione in un ruolo di prestigio, la carriera, il successo. E’ la via dell’alienazione dal vero sé. E’ la via delle dipendenze.
La nostra società ha orrore per ciò che non può controllare e assoggettare ai suoi schemi. Così incoraggia la soluzione più facile: alimentare il narcisismo perseguendo la soddisfazione immediata dei bisogni carenziali.
Di fronte al vuoto esistenziale, alla mancanza di significato, ci propone un continuo carosello di stimoli: alimentari, acustici, visivi, cinestesici. Ci culla dal mattino alla sera in un mondo falso e illusorio.
L’uomo di oggi ha paura della solitudine e del silenzio (Fromm, 1941). Nella solitudine affiorano alla sua coscienza i demoni che ha cercato disperatamente di affossare nell’ombra. Per fuggire ai demoni, sfugge a se stesso e alla propria umanità.
La ricerca della felicità
La strada verso la felicità è quella che integra e accetta pienamente tutti gli aspetti della nostra esperienza.
Quest’integrazione è rappresentata dal simbolo taoista dello Yin-Yang, anche nelle tenebre più profonde c’è un punto di luce. Anche nella luce più grande è presente l’oscurità.
Essere integri significa abbandonare il tentativo di perseguire il piacere, sfuggendo al dolore, che non può essere controllato ed eliminato. Significa connetterci, aprirci e continuare ad amare, indipendentemente da ciò che succede (Salzberg, 1995). Amare significa essere completamente presenti, essere indivisi e non frammentati. Esiste solo un totale appagamento, nel qui ed ora. C’è un contatto profondo con la realtà delle cose e con le persone, un contatto così gratificante in sé che ci assorbe completamente.
Quando nello stato di coscienza ordinario pensiamo ai grandi maestri, proiettiamo su di loro i nostri desideri, e crediamo che loro siano immuni dai fatti spiacevoli della vita. Ma non è così: S. Francesco soffrì di varie malattie, Krishnamurti morì di cancro. Così siamo portati a dubitare del loro potere, e a continuare a cercare qualcosa che ci garantisca l’immunità. La nostra medicina sta prolungando sempre più la nostra vita; per essa conta la quantità, non la qualità. I veri maestri sono consapevoli dell’impermanenza di tutte le cose. Non sviluppano attaccamento a desideri e speranze, ma vivono al cento per cento nel presente, in uno stato di amore, connessione, totale appagamento (Osho, 1978). In tale stato i fatti sgradevoli della vita assumono un significato del tutto diverso.
Un cucchiaino di sale rende imbevibile l’acqua di un bicchiere, ma lascia pressoché invariata l’acqua di un lago.
La coscienza che da bicchiere si fa lago è in grado di abbracciare i fatti dolorosi per quello che sono: piccoli cucchiai di sale in un’infinita distesa d’acqua.
L’amore come fonte di guarigione
I saggi e i guaritori di tutti i tempi concordano sul fatto che l’amore è l’unica vera fonte di guarigione.
L’ascolto profondo, senza giudizio, senza aspettative e desideri, è un autentico atto d’amore. Chi riceve l’ascolto profondo, grazie al profondo scambio energetico che intercorre con l’ascoltatore e all’interno di una relazione di totale fiducia, si rende conto che il trauma che credeva più personale, in realtà è parte dell’esperienza universale.
Il dolore autentico, condiviso con coraggio, si trasforma in un ponte che conduce verso la luce e la dolcezza.
Perché questo accada, occorre che il terapeuta o guaritore sia presente con tutto il suo essere, pronto ad attraversare a sua volta le personali ferite, che risuonano con quelle del facilitato (Jampolsky, 1996). Non può chiedere all’altro di fare ciò che lui stesso non ha fatto. Un’autentica relazione d’aiuto presuppone genuinità, trasparenza e coraggio. Tutto ciò che è atteggiamento di superficie, senza radici nella profondità dell’essere, viene colto dall’inconscio del facilitato, che inizia a frapporre ogni sorta di resistenze al lavoro.
Questa è la vera natura dell’amore: comprensione e piena accettazione della realtà così come è.
Preparazione alla morte: ciò che è essenziale
In punto di morte, gli esseri umani tendono a fare un bilancio della propria esistenza: se il bilancio è attivo, se nella vita ha prevalso l’amore, la morte sarà serena. Se il bilancio è negativo, se ha prevalso la distruttività, si combatte con la morte, la si rifiuta, ci s’impegna in una lotta disperata.
Ma quali voci compaiono nel bilancio?
Nei momenti finali della vita, ci si avvicina a ciò che è veramente importante:
le relazioni, gli affetti, gli aspetti spirituali dell’esistenza.
Se una relazione si è chiusa male, se ci sono dei sospesi, se si sono compiute azioni distruttive, tutto questo si trasforma in tormento, in rimorso, in sofferenza.
Chi muore male, lascia in eredità a parenti, amici, conoscenti, un fardello che pesa sulla loro coscienza. Chi muore in pace, lascia a chi rimane un senso di serenità e fiducia, e fornisce ai presenti un dono prezioso:
li aiuta a superare la paura più grande, quella della fine della vita (Yalom, 1989).
Attraverso la comunicazione empatica da cuore a cuore, agevolata dall’espressione musicale, e la condivisione della sofferenza, il musicoterapeuta è in grado di facilitare l’accesso della persona alle sue risorse spirituali e la trasformazione del suo stato di coscienza.
La condivisione autentica, nella quale entrambi accedono alle loro ferite, con il coraggio di attraversarle, apre un nuovo spazio di consapevolezza dove i confini personali tendono a sfumare e si accede ad un senso di connessione profonda con qualcosa di più grande, che accomuna tutti, giovani, vecchi, sani e ammalati, credenti e non credenti, indipendentemente dalla sorte personale e dal destino.
Bibliografia
Dethlefsen, T. (1984), Malattia e destino, Mediterranee, Roma, 2000. Elenjimittam, A. (1990), Meditazione per la realizzazione del Sé, Mursia, Milano, 1995. Epstein, M. (1998), Lasciarsi andare per non cadere in pezzi, Neri Pozzi, Vicenza, 1999. Fromm, E. (1941), Fuga dalla libertà, Mondadori, Milano, 1992 Hellinger, B. (2002), I due volti dell’amore, Ed. Crisalide, Spigno Saturnia. Ikeda, D. (1982), La vita: mistero prezioso, Sonzogno, Milano, 1998. Jampolsky, G. (1996), Amare significa guarire, Macro Edizioni, Cesena, 2005. Krishnamurti, J. (1993), La ricerca della felicità, Rizzoli, Milano Osho Rajneesh (1978), La mia via, ed. Mediterranee, 1996 Peck, M. S. (1978), Viglia di bene, Frassinelli, Piacenza, 1985. Pierrakos, J. (1987), Corenergetica, Crisalide, Roma, 1994. Pierrakos, E. (1997), Arrendersi al nucleo divino, Crisalide, Roma, 2000. Pierrakos, E. (1989), Il male e come trasformarlo, Crisalide, Roma, 1992. Salzberg, S. (1995), L’arte rivoluzionaria della gioia, Ubaldini, Roma, 1995. Scardovelli, M., Ghiozzi, R. (2003), La musica nel passaggio luminoso, Borla, Roma, 2003. Reich, W. (1948), La funzione dell’orgasmo, Sugarco, Milano, 1985. Walsh, R., Vaughan, F. (1993), Paths Beyond Ego, Putnam, New York, NY. Wilber, K (1977), Lo spettro della coscienza, Ed. Crisalide, Spigno Saturnia, 1993. Wilber, K. (1995), Sex, Ecology, Spirituality, Shambhala pubblications, Boston, Ma. Yalom, I.D. (1989), Guarire d’amore, Rizzoli, Milano, 1990.